Non possiamo certo dire di questo viaggio in nord America che non si citi l’Italia e i prodotti italiani. Un po’ dovunque, specialmente in ciò che è legato al Food non manca mai, o quasi, di leggere “italian” sull’etichetta o di trovare un angolo italian nei vari store.
Una cosa che ovviamente inorgoglisce e fa piacere, vuol dire che l’Italia nel food (e non solo) ha un nome non facilmente sostituibile e battibile. Non mancano le decine di pizzerie e ristoranti che si richiamano all’Italia nel nome o nel menù, molti di questi effettivamente riconducibili a fondatori o famiglie italiane che custodiscono con amore le loro origini e la qualità dei loro piatti. Veramente eroici e ne abbiamo conosciuti tanti.
Insomma l’Italia nel nome delle cose c’è. Ma quanta Italia c’è dietro l’aggettivo Italian ?
A un’analisi, la nostra, semplicemente sperimentale, cioè costruita dall’esperienza vissuta in questi 12 giorni tra USA e Canada ci induce a dire, così, ad occhio che quell’aggettivo Italian è “troppo” presente. Molto spesso lo si usa per attrarre l’attenzione, per vendere dando una certa garanzia, per dire che quei prodotti in qualche modo hanno a che fare con l’Italia.
In molti casi no, si rifanno all’Italia, per esempio nel nome della pasta (rigatoni, spaghetti, ecc.), o dell’olio extravergine d’oliva, dei sughi, delle pizze, delle ricette, dei salumi o dei formaggi.
Non sappiamo questa cosa quanto sia regolamentata. L’Italia è un brand che tira e attira, forse però l’Italia non fa abbastanza ? Non lo sappiamo, sappiamo che le Camere di Commercio, i Consolati, le regioni, l’ICE, molto fanno. Sappiamo bene che il business è business. Che qui conta molto il prezzo. Però troppo “Italian”, non è “Italian”… diciamo che va bene così, per ora, ma una riflessione andrebbe fatta… Prendiamo per buono il “purché se ne parli” di andreottiana memoria e andiamo avanti…
A proposito… ogni tanto abbiamo incontrato un qualcosa dalla forma inconfondibile… la nostra 500.