No, quello che accade non è figlio dell’eccessiva tolleranza finora praticata. No, come italiani non possiamo rifugiarci dietro questo alibi. Tanto meno risolverla con bieche spedizioni squadriste. I flussi maledetti, che adesso ci spaventano, sono stati e sono ben altra croce, per esempio, per la Germania che dopo l’unificazione è diventata, ancora di più, la meta ambita dai moventi migratori provenienti dall’Est. E lo stesso è per Londra, Parigi, Milano o Madrid, per non parlare di Tokyo, New York e Mosca.
Tutte le periferie delle grandi capitali europee, e non solo, sono un concentrato di emarginazione ad alto potenziale ricettivo di violenza, terrore ed illegalità. Gli sprazzi degli eventi da prima pagina sono solo le tragiche punte di un dramma, che si consuma nelle aree metropolitane di frontiera. Al di là di una cortina d’indifferenza, posta a protezione dell’effimera quotidianità dei ritmi cadenzati col benessere, dei quartieri signorili delle nostre città.
Con i romeni, oggi, si ripete quanto già vissuto, in un certo qual modo, con gli albanesi ieri o con i marocchini e i tunisini ancora prima. Un problema che rischia di perpetuarsi, mettendo radici malsane, se nessuno si deciderà ad affrontarlo con la forza della volontà e l’impegno a trovare una soluzione adeguata. Se si continuerà a parlare solo di accoglienza, senza convincersi che la vera sfida sta nei più difficili processi di integrazione. Se si continuerà a mettere in prima pagina, perché fa notizia, l’immigrazione della cronaca nera, senza trovare lo spazio corrispondente all’immigrazione, ben più consistente, del servizio sociale, del lavoro usurante e di quello più umiliante, del volontariato e della manovalanza piuttosto introvabile. Se non si considera che ci sono i flussi chiassosi di romeni, albanesi, marocchini e tunisini, ma anche quelli molto più silenziosi e operosi di filippini, mauriziani, cingalesi, peruviani, colombiani e senegalesi.
In altre parole, se si continuerà a guardare solo il lato della medaglia con l’effige di Mailat, senza tener conto di Emilia, che sta sul dorso. Mai come stavolta, la tragica vicenda romana di Tor di Quinto è metafora del conflitto dilaniante di un Paese in cerca di riscatto. C’è una Romania che afferra il futuro, che grida, piange e non ha paura di denunciare il male che attanaglia il suo Paese. E’ una Romania che può avere la meglio, soprattutto se, ancora una volta, saranno le donne a farsi carico di uno parto così doloroso.
di Antonio V. Gelormini