Ha fotografato la morte. Il suo slancio eroico è tutto racchiuso in quell’ultimo scatto, nella più scomoda delle posizioni, vittima inerme della violenza dei generali birmani. L’ha incontrata in una strada di Rangoon, aveva una divisa verde militare, il gelido bruciore di una scarica di mitra e, scoop nello scoop, calzava un paio di infradito.
Nessun flash per cercare di abbagliare lo sguardo freddo dell’esecutore, ma la sua raffica di scatti è stato l’ultimo e moderno grido di un patriottismo senza confini. Il gesto impavido di un autentico samurai del reportage di guerra. Kenji Nagai, insieme alla schiera di monaci dal “sanghati” color zafferano, diventerà l’icona indelebile di questa drammatica pagina di storia orientale e il simbolo devastante di una caparbia vocazione, a quella che Alessandro Piperno ha definito: “la religione della libertà”.
Quello scatto fatale, al tempo stesso, diventa un appello al mondo intero, per sostenere l’impari guerra di chi si ostina a combattere, con le armi della non violenza e della dignità, gli abusi della dittatura di una giunta militare, come quella birmana, o le ipocrisie di vicini asiatici in affari come India, Cina e Russia. Un appello soprattutto a quell’Occidente, fortemente smarrito e armato solo della retina di una reflex e di uno zoom non sufficientemente potente.
di Antonio V. Gelormini