“Nulla si crea e nulla si distrugge, ” è uno dei paradigmi della scienza ed anche il nostro corpo dopo la morte, disintegrandosi, ritorna alla terra e ad essa restituisce le sostanze della sua materialità, ma i nostri pensieri, i nostri dolori, le speranze, la felicità, gli smarrimenti, le malinconie, i ricordi, i desideri, gli affetti, non vogliamo dire la nostra anima, dove finiscono?
Se nulla si distrugge, se la nostra misera carcassa continua ad esistere trasformandosi, perché’ ciò che a noi appare immateriale dovrebbe scomparire?
Una moderna radio a transitor è in grado di captare un monologo recitato a New York o il ritmo frenetico di una danza da Rio de Janeiro. Se il cervello dell’uomo è la cosa più prodigiosa dell’universo perché’ non possiamo credere che possa afferrare i nostri sentimenti che vagano nello spazio dopo la morte?
Un neonato potrebbe raccogliere il messaggio di uno sconosciuto che gli lascia in eredità le sue inquietudini, le sue gioie, i suoi dolori. Se milioni di uomini di antiche e sagge civiltà’ credono a questa possibilità, anche noi possiamo crederlo, sperarlo, temerlo.
Sono pensieri che ci danno l’idea della nostra miseria e della nostra nobiltà. Sperduti nell’infinita immensità degli spazi, destinati a vivere un lampo a confronto dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si sia accesa per caso a contemplare un universo ostile o, quanto meno, indifferente al nostro destino.
Il nostro corpo è stato da sempre considerato il contenitore di un’anima immortale ed immateriale e ciò ha comportato il fiorire di mitologie e religioni che tendono a dare una risposta confortante alla nostra paura della morte.
Oggi, in un mondo che rifiuta sempre più spiegazioni magiche e prelogiche, il primo a vacillare è il libero arbitrio: infatti, se è il nostro cervello a decidere sotto l’influsso di ormoni e mediatori chimici, l “Io”, inteso come una sostanza immateriale, viene messo in crisi, giorno dopo giorno, dai progressi della neuroscienza.
Una teoria della coscienza che possa dare delle risposte in termini scientifici è il primo passo per identificare una formula che definisca l’anima.
Nel corso dei secoli si è cercato di definire in maniera convincente l’anima, ma nessuna teoria ci ha pienamente soddisfatto.
Fenomeni fisici come, vedere un film, ascoltare una canzone o leggere un libro si trasformano sorprendentemente, in esperienze soggettive: il ricordo di un amore tramontato, una vacanza esaltante o una malinconica reminiscenza.
Nel seicento Cartesio, convinto sostenitore del dualismo (separazione tra il corpo e la mente) identificava nella ghiandola pineale (l’ipofisi) il tramite che metteva in contatto i due mondi. In quel fagiolo posto al centro della testa avveniva la magica trasformazione di un cornetto che ci rammentava l’allattamento al seno materno. La coscienza andava spiegata nell’ambito della fisiologia del cervello, un rudimentale interruttore dell’anima.
Oggigiorno quando parliamo di coscienza, dobbiamo riferirci anche e soprattutto al concetto d’informazione. La somiglianza con un computer può apparire sorprendente, anche se la sintassi binaria dell’informatica – una lampadina è spenta o è accesa, è ben diversa dalla capacità di discernimento del cervello umano, in grado di apprezzare diversi trilioni di altri stati e di combinarli in modo da avere un valore informativo infinitamente maggiore. Se osserviamo una palla rossa, cogliamo assieme la forma e il colore; allo stesso modo, quando ascoltiamo una frase, il tono e il timbro della voce ci aiutano a percepirne il significato. Kant definiva questa caratteristica “appercezione trascendentale”.
I computer funzionano diversamente: ogni singolo pixel (unità d’informazione) non ha coscienza degli altri; è alla luce di questi due assiomi che si può tentare di impostare un’equazione in grado di calcolare il tasso di coscienza di un organismo espresso come una lettera greca, seguita da un numero, che quantifichi l’abilità di discriminazione e il livello d’integrazione delle informazioni. Cartesio era rimasto ancorato alla distinzione tra Res Cogitans e Res Extensa.
Hume, come tanti Neuroscienziati contemporanei, intendeva la coscienza come la semplice somma di tante coscienze generate dall’esperienza.
Kant era andato avanti nel ragionamento ma senza pensare a una formula matematica. Oggi la scommessa vincente è quella di tenere conto che la coscienza è qualcosa di più della semplice somma delle sue parti e può essere quantificata solo attraverso un’equazione. Da qui impostare la formula dell’anima è il passo successivo, difficile, ambizioso, ma prima o poi realizzabile.
di Tiziana della Ragione