‘Il silenzio del Sud e i rumori del Nord hanno accompagnato anni di scomposizione del corpo civile e sociale del Paese, lo sfibramento di un racconto condiviso, di un’ambizione comune, di una missione capace di dare all’Italia e alla sua collocazione geopolitica la cifra culturale di un grande progetto euro-mediterraneo. Qui, come altrove nel vecchio continente, è andato in scena il copione delle piccole patrie, di un moderno tribalismo alimentato dalla paura della globalizzazione e delle sue incognite. Il sogno di Altiero Spinelli si è ridotto alla forma prosaica di una moneta oggi sotto assedio. Ma un Euro senza Europa, senza una forte soggettività politica continentale, senza istituzioni democratiche robuste, non ha potuto farsi scudo e ripararci dagli artigli degli speculatori. La fragilità politica si è presto trasformata in vulnerabilità economica. La retorica dell’Unione ha lasciato rapidamente il posto all’egoismo miope degli Stati nazionali e agli effetti regressivi delle predicazioni nazionalistiche. In questa scena siamo collocati, qui dobbiamo svolgere la nostra parte. Certo, stenta a nascere quella “nuova stagione del dovere” evocata proprio da chi con i piedi ben piantati sulla terraferma di Puglia cercava di scrutare oltre i confini del mare, per cominciare ad elaborare una idea più evoluta delle relazioni tra i popoli e le culture. Da chi proponeva la politica come antidoto alla barbarie. Oggi viceversa troppo spesso la politica seppellisce le proprie ambizioni o cercando la scorciatoia dell’urlo populista o nella gestione elettorale dei localismi, dei corporativismi, dei conservatorismi, tanto da proporsi talvolta obiettivi illusori e assai pericolosi: non si tratta di disfare l’euro, bensì di salvare e rifondare l’Europa, di costruirla non secondo le ricette di un monetarismo asfittico, sotto dettatura di quella finanza opaca che cerca di etero-dirigere le istituzioni politiche e che sta divorando come un cannibale l’economia reale e il mercato, ma di tessere la tela culturale e istituzionale di un immenso e ricchissimo crocevia di storie di emancipazione e di libertà: l’Europa che amiamo è quella sgorgata dalle viscere di guerre e rivoluzioni, quell’idea di convivenza matura fondata sullo Stato di diritto e sulle libertà individuali, sulla solidarietà e sul culto dei diritti umani, sul Welfare e sulla civiltà del lavoro. Noi abbiamo cercato di essere, in questo lembo di Mezzogiorno, un luogo che si percepiva e si narrava come Euro-mediterraneo, fuori da ogni tentazione di secessione nella demagogia di una periferia che gonfia il petto e maledice il diavolo del centralismo. Abbiamo cercato di ricordare all’intelligenza del Paese, spesso inquinata dai leghismi, che il Sud è più complesso e più ricco di quanto non dicano le rozze caricature o i luoghi comuni un po’ razzisti che hanno fatto breccia in settori significativi della cultura dominante. Il Sud non è un tutto omogeneo, non è un ciclopico cono d’ombra che risucchia e oscura civismo e senso dello Stato, non è solo mafia e parassitismo. Abbiamo potuto costatare quanto pernicioso sia indulgere in questi stereotipi, per poi avere l’amaro risveglio di un Nord infiltrato in lungo e in largo dai clan e dalla violenza criminale. C’è un Sud che vuole usare persino la crisi come occasione per ripensarsi e scommettere sull’innovazione, sul cambiamento necessario, sul bisogno di scrollarsi di dosso vecchie mentalità e indolenze culturali. C’è un Sud che sente il dolore sociale, la fatica di vivere, la domanda persino disperata di lavoro di quelle giovani generazioni ingabbiate nei circuiti lividi della precarietà, ma che non chiede elemosine o ammortizzatori sociali: non si può e non si deve ammortizzare il futuro come se fosse una minaccia, lo si deve accogliere come una promessa. Ciò significa tornare ad investire quantitativamente e qualitativamente su formazione, educazione, cultura, ricerca, recuperando capacità di ascolto delle competenze e delle passioni di chi vive nella scuola e nell’Università. Nella mia regione lo abbiamo fatto con risultati straordinari, promuovendo esperienze d’avanguardia che hanno riguardato ogni ordine e grado degli apparati formativi. E se capita che il Politecnico di Bari risulti al primo posto nella classifica delle eccellenze accademiche, non si cancelli questa notizia dalle cronache. Contro la crisi noi chiediamo politiche pubbliche di sostegno alle imprese, in un nuovo disegno di politica industriale che sappia fare i conti con il diritto alla salute e all’ambiente: sulla scena dell’Ilva non c’è solo Taranto e i suoi affanni, ma il rendiconto di una lunga storia sociale che riguarda l’intera nazione. Se il confronto fosse tra industrialismo cieco e ambientalismo fondamentalista, non si riuscirebbe ad intravvedere alcun vincitore all’orizzonte: perderebbero tutti, in una tragica giustapposizione tra lavoro e ambiente. Su questa sfida la Puglia ha visto l’unità e lo spirito di collaborazione di un’intera classe dirigente, senza distinzioni tra le coalizioni politiche e con il contributo prezioso della concertazione con i sindacati e con le forze sociali. Non posso non sottolinearlo come un fatto straordinario: in questa nostra regione una contrapposizione elettorale di speciale veemenza non ci ha impedito di concentrarci, insieme, sul bene della nostra comunità. Dico grazie ai miei compagni e dico due volte grazie ai miei avversari. Nel vuoto del legislatore nazionale abbiamo qui, fin dal 2008, prodotto innovazioni normative di rilievo: per l’abbattimento delle diossine, del benzopirene, delle polveri sottili, abbiamo imposto, primi e unici in Italia, un parametro inedito quale quello della “valutazione di danno sanitario” con cui occorre monitorare le aziende affinché siano obbligate ad adeguare i propri impianti. Ora tocca all’Ilva giocare in prima persona la partita decisiva, quella della vita: la vita di una città che ha diritto di respirare, di lavorare, di raccontare al mondo non più i propri incubi ma la propria bellezza. Insomma, l’ecologia non è un congedo dall’economia – questo penso io: ma è la sfida di una nuova economia che usa gli strumenti dell’innovazione per coniugare profitto privato e profitto collettivo, i bilanci aziendali con i bilanci della qualità dell’aria, dell’acqua, del cibo, della salute. Per questo esprimiamo il nostro dissenso radicale contro l’autorizzazione delle prospezioni geofisiche nei fondali adriatici e siamo pronti a tutto per impedire che le Isole Tremiti e la nostra costa possano conoscere lo sfregio delle trivelle. Noi qui siamo i primi produttori nazionali di energia da fonti alternative, con 2.186 megawatt di fotovoltaico, 1.393 megawatt di eolico, 228 megawatt di bioenergie: e dunque noi non siamo quelli della “sindrome di Nimby”, ma non intendiamo certo essere una terra da colonizzare o da svendere.
Signore Presidente del Consiglio,
abbiamo attraversato il mare in tempesta della crisi con quei limiti alla navigazione che talvolta ci hanno fatto rischiare il naufragio. Parlo dei vincoli del patto di stabilità, che ci impediscono di trasferire risorse vive, che noi abbiamo, alle imprese, persino per cantieri avviati e per i loro stati di avanzamento. Parlo dei vuoti clamorosi di interlocuzione sui nodi della politica trasportistica, in un Paese che dovrebbe scegliere anche qui il rilancio del trasporto pubblico, dell’intermodalità, della sostenibilità, piuttosto che chiudere fabbriche di autobus o cassare vagoni letto e treni a lunga percorrenza. Parlo dell’assenza di un’idea chiara di quale sia il panorama industriale che l’Italia sceglie di difendere e consolidare: che fine farà l’acciaio? E la chimica? E l’automobile dopo la fine di alcune favole di successo? Che facciamo delle nostre specializzazioni produttive? Che investimenti sulla rete e la connettività? E l’agricoltura, in un’Italia che vede spopolarsi l’entroterra, con il bosco che torna a occupare le campagne abbandonate, con il dissesto idro-geologico che ci fa vivere nel ciclo dell’emergenza perenne? E quei settori, dalla moda al salotto, che sono tanta parte del genio imprenditivo italiano, che orizzonti hanno dinanzi? Non si tratta di immaginare uno Stato ficcanaso, bensì un pubblico che è capace di orientare, di stimolare innovazione e internazionalizzazione, di ossigenare il contesto, di sostenere sistemi di credito che non strozzino le aziende. Qui in Puglia la crisi non l’abbiamo mai nascosta, anzi. A partire dal 2008, appena abbiamo sentito l’odore della burrasca, abbiamo messo in campo strumenti lungimiranti. La prima manovra anticiclica, con 820 milioni di euro, di sostegno alle nostre imprese. Poi un programma di sostegno ai lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, con 60 milioni di euro. Poi il “Piano straordinario per il lavoro” con una dotazione effettiva di 376 milioni di euro. Poi una manovra costruita con il sistema bancario denominata “Quattro mosse contro il credit crunch”, con una dotazione di 100 milioni di euro. Sentiamo anche noi, e duramente, gli effetti della crisi. Tuttavia siamo incoraggiati da quanto ci dicono gli indicatori economici, dalle foto statistiche e dagli studi di Bankitalia. La mia regione nel secondo trimestre 2012 è risultata al primo posto per incremento occupazionale, con più 55 mila occupati. Sono gli ultimi rilevamenti Istat. Siamo anche primi in Italia, sempre da fonti Istat, per crescita delle esportazioni, con più 17,9 % con un fatturato di oltre 8 miliardi di euro. Siamo la terza regione per incremento del numero di imprese, con un saldo positivo di 2.600 aziende (è il rapporto di Unioncamere che lo certifica). In un quinquennio siamo passati dall’ultimo posto della classifica nazionale al quinto posto per quanto riguarda la nascita di spin-off, di aziende innovative, di reti di laboratori pubblici. E poi abbiamo aperto un sentiero sulle politiche culturali mirate ad impiantare nuovi segmenti di industria nel campo della creatività, della connettività, del cinema, della musica, delle arti. Abbiamo guadagnato significativi primati nel campo del turismo, trasformando il nostro territorio in un brand di qualità, mentre riorganizzavamo la protezione civile, la difesa del territorio, politiche urbanistiche fondate sulla riqualificazione delle periferie e sulla rigenerazione urbana. Abbiamo dimezzato il debito storico dell’ente che governiamo, come certificano le agenzie di rating. Abbiamo sanato le aziende partecipate dalla Regione, che oggi offrono bilanci in attivo e patrimoni consolidati. Abbiamo rinegoziato bond al cardiopalma con una importante banca d’affari americana, mettendo la Puglia al riparo dai veleni della finanza tossica. Abbiamo avviato, con i progetti Aurora e Gnosis, i più avanzati processi di informatizzazione della giustizia: spendendo pochi milioni di euro, con risultati eccellenti, a fronte del miliardo speso dal Ministero di Giustizia in 10 anni con risultati davvero scarsi: perché i nostri prototipi non vengono subito clonati in tutta Italia, non sarebbe questa una spending revew più efficace di quel taglio di tribunali (penso al tribunale di Lucera) che può avere effetti negativi se è solo un taglio e non una seria riorganizzazione del sistema giudiziario?
Spesso inciampando, andando talvolta fuori strada, magari sbagliando, noi abbiamo cercato di amare il Sud senza difenderne le brutture, senza occultarne i vizi antichi e moderni, ma promuovendo le infrastrutture del benessere sociale per tutti e tutte, alzando la bandiera dell’accoglienza dei migranti e denunciando la brutalità del caporalato, edificando una rete diffusa di servizi evoluti – dagli asili nido agli hospice ai “dopo di noi” per le persone disabili, cominciando a innovare con la telemedicina e la territorializzazione dell’offerta quella sanità assediata da affarismo economico e conservatorismo culturale: dando cioè risposte che oggi rischiano di essere travolte dagli effetti dei tagli lineari e da quelle politiche di austerità che hanno un segno vistosamente di classe, che tagliano in basso e non in alto, che rischiano di essere la medicina che uccide l’ammalato. Questo frammento d’Europa in cui abitiamo non l’abbiamo usato o abusato come una tribuna elettorale, lo abbiamo amato. Il nostro sogno, la nostra fatica, è stata ed è quella di raccontare un Sud con la schiena dritta. C’è una città bellissima della Puglia, Mesagne, che oggi sintetizza in modo speciale tutto il dolore e tutta la fierezza che c’è nel nostro cuore: lì piangiamo una ragazzina, Melissa, il cui quaderno insanguinato è la metafora di una generazione spesso tradita; lì Carlo, neppure trentenne, è tornato dalle olimpiadi londinesi con una medaglia d’oro. Alle generazioni di Carlo e Melissa dobbiamo saper offrire un Paese migliore’.
Nichi Vendola