Sono Roger Keil, sono professore di Scienze politiche alla York University di Toronto dove coordino il gruppo di ricerca internazionale Global Suburbanism. Governance, Land and Infrastructure in the 21st Century”.
Nella vostra ricerca ipotizzate che stiamo attraversando una “Rivoluzione suburbana”. Cosa significa questo per la realtà europea?
Quello che da tempo chiamiamo Urban Revolution (rivoluzione urbana) è in realtà una rivoluzione suburbana. Più andiamo avanti e più ce ne rendiamo conto e sarà ancora più evidente per le prossime generazioni. La stragrande maggioranza della popolazione vive nelle periferie. Parliamo di “Revolution” per mantenere l’enfasi molto presente nei discorsi legati alla dimensione urbana: dalla “rivoluzione urbana” al secolo urbano”. In realtà le dinamiche urbane dal Medio Evo in poi sono dinamiche piuttosto “evolutive” e in contesti come quello europeo stiamo assistendo a dinamiche contrarie: persone che piuttosto si allontanano dalla città, tanto che c’è chi parla di “fine dell’urbanizzazione”. Ma è anche vero che si tratta di un processo rivoluzionario per altre zone del mondo: dalla Cina all’India alla stessa Europa dell’est dopo la caduta del Muro. Si tratta di un processo che ha interessato soprattutto l’ultima generazione ed è rivoluzionario nel senso che sta cambiando tutto: il modo in cui la gente vive, la struttura economica, le struttura spaziale e delle relazioni, l’utilizzo della terra e delle risorse. E questo è qualcosa che possiamo osservare pressoché dovunque.
Quali sono le dimensioni della Suburban Revolution?
Abbiamo identificato tre aree che possono essere studiate empiricamente: la terra, le infrastrutture e la governance. Attraverso la dimensione della terra (Land) consideriamo gli aspetti legati alla proprietà e le questioni legali ed economiche collegate. Dobbiamo tradurre quello che consideriamo come suolo o natura in una commodity, e dovunque guardiamo, dagli squatter africani alla Cina fino all’economia americana fortemente orientata al mercato, la terra gioca un ruolo centrale. Se non capiamo questo non possiamo capire il processo di suburbanizzazione.
La seconda dimensione è la governance, cioè un modo estensivo di parlare di politica. A volte assumiamo quasi che la suburbanizzazione sia un processo naturale, che accade perché, ad esempio, c’è domanda da parte dei consumatori per un certo tipo di case, le cd single family home e dunque si verifica lo sprawl perché il mercato incontra la domanda di individui che vogliono vivere in quel tipo di mondo. Ma questo non succede per caso. C’è un progetto di governance che nasce da un incrocio di azione pubblica e dinamiche di mercato. Da questo scaturisce un modello che porta al risultato delle comunità chiuse – gated community – in cui i cittadini si chiudono alla sfera pubblica e in parte anche al mercato.
Infine c’è la dimensione delle infrastrutture. Teniamo presente che la suburbanizzazione può essere studiata secondo un approccio culturale e demografico ma è anche molto importante studiarla da un punto di vista materiale. Uno dei modi in cui possiamo descrivere le periferie è la disponibilità e l’uso delle infrastrutture e il loro ciclo di vita. Basti pensare alla mobilità e ai trasporti. Ad esempio, negli Stati Uniti possiamo dire che che costruire autostrade significa costruire suburbanizzazione, così come in Svizzera possiamo dire che le ferrovie portano alla suburbanizzazione, perché si costruiscono stazioni in ogni valle attorno a Zurigo e lo sprawl è nei fatti una conseguenza di quella particolare infrastruttura.
Come si posiziona l’innovatore sociale in questo scenario suburbano?
Mi interessa molto la prospettiva dell’innovazione sociale nelle periferie, perché ci permette di cogliere qualcosa di profondamente nuovo nelle periferie: un nuovo modo di fare politica. E in questo senso amo parlare di suburbanismo piuttosto che di suburbanizzazione. Parafrasando un classico degli studi urbani, vorrei concentrarmi su quello che sta emergendo come un “suburban way of life”, adottando una prospettiva sociologica concentrata sul modo di vivere delle persone. Lo stile di vita urbano era contrapposto a quello rurale: le città americane in rapida crescita avevano portato degli elementi nuovi nella vita delle persone, dall’elettricità diffusa all’alienazione, dall’incontro con lo straniero nelle strade agli spazi pubblici. Parlando di periferie dobbiamo tener presente questo: che la suburbanizzazione porta a nuovi modi di vivere e parlo volontariamente di suburbanismi. Non esiste un unico stile di vita suburbano. Le persone che vivono nelle periferie di Toronto vivono molto diversamente dalle persone che vivono nelle periferie del Cairo. Ma una cosa è certa: nella prossima generazione molti di noi vivranno in un contesto suburbano e necessariamente molta dell’innovazione sociale è concentrata in questa area e in questi stili di vita. Questo è in contraddizione con quella che chiamiamo l’inner city creativa (ambienti suburbani in aree centrali della città), per cui ovunque nel mondo troviamo questa tipologia di “economia creativa” legata alla tendenza hipster, ai caffe ospitati da vecchi edifici recuperati, dove le persone si incontrano per discutere come innovare.Questa è solo la copertina che nasconde un processo più diversificato. La visione dominante sullo stile di vita suburbano tende a nascondere il fatto che esistono posti attorno alla regione urbana dove l’innovazione sta accadendo in forme molto diverse. Si tratta di prestare attenzione, analizzare e comprendere questi punti caldi dell’innovazione.
Come si collegano governance, attivismo e politica attorno al processo di suburbanizzazione?
E’ abbastanza interessante che i luoghi periferici e gli stili di vita collegati sono diventati centrali per il modo in cui intendiamo la politica. Pensiamo ad esempio alla Primavera Turca. C’è chi ha argomentato che è stata la celebrazione della centralità urbana, perché piazza Tahrir è diventata il centro dei movimenti, ma si può anche argomentare che è stata la massa che, dalle periferie malservite e vessate, è entrata nella città perché si è sentita esclusa e marginalizzata rispetto al processo politico che tende a favorire i privilegiati del centro urbano. Questa è una dinamica classica per le citta europee, basti pensare al collegamento tra la riforma haussmaniana a Parigi, che ha buttato fuori dalla città la classe operaia, e i moti del ’68 in cui una delle ragioni del conflitto erano i problemi delle periferie. Gli studenti che hanno invaso Parigi nel ’68 erano gia un movimento suburbano che reclamava il proprio diritto alla città. Oggi la fabbrica sociale delle periferie è in rapido cambiamento. A Toronto la maggior parte delle periferie o delle nuove cittadine attorno alla città è abitata da immigrati di paesi non europei, non bianchi. Questo cambia il gioco politico non solo a Toronto ma nell’intero Paese. In Canada emergono nuove istanze politiche, da nuovi soggetti politici che nascono come popolazione suburbana che non ha mai vissuto nel centro della città, nei quartieri centrali per immigrati, nelle Brooklyn del mondo, per capirci. Questo cambia il processo politico peché cambia le domande che le persone hanno nel contesto urbano e regionale. E sta chiaramente emergendo. Davanti al movimento Occupy, la mia critica è stata proprio questa: invece di rivendicare spazi del centro già occupati dalle banche e dal potere, occupiamo le aree commerciali, cioè gli spazi periferici dove la maggior parte di noi vive, dove si stanno svolgendo le più interessanti conversazioni politiche e culturali.
In questo nuovo scenario urbano c’è spazio per i piccoli centri e le aree rurali?
La questione dei piccoli centri è cruciale, per il discorso che facciamo. Tanto per capirci, io apro le mie lezioni sulla città con una foto di San Gimignano in Toscana. La parola chiave qui è differenziarsi. Assistiamo a due tendenze opposte: da un lato la città metropolitana, ad esempio Milano, Madrid, Parigi, Londra, Berlino e le megalopoli del Sud del mondo, che cresce fuori dal centro per diventare un grande agglomerato urbano. Dall’altro lato assistiamo all’urbanizzazione delle aree rurali. Se attarversi i piccoli o medi centri dell’Italia o della Francia, vedi che in ogni piccolo paese è in corso un processo di suburbanizzazione. E’ una crescita che assomiglia alla crescita della grande città: quando entri in una città la prima cosa che vedi è un agglomerato di negozi di supermarket, negozi di arredamento e cose di questo tipo. Ogni città, a prescindere dalla sue dimensioni, replica questo tipo di suburbanizzazione industriale e commerciale che vediamo dovunque. Questa è una’osservazione, non necessariamente una condanna. Semplicemente non penso sia l’unico modello che dovremmo avere. Forse la Toscana è qualcosa da preservare come modello regionale, un contro-esempio di un processo di urbanizzazione che mantiene la centralità del piccolo villaggio, controlla lo sprawl urbano e crea collegamenti tra i paesi cosi da creare un nuovo ordine, del tutto originale particolare rispetto al modello della megacity che vediamo a Londra o a Parigi. Forse c’è ancora speranza: possiamo proporre un processo differente e l’Italia potrebbe essere un esempio storico in questo senso.
Cosa pensi di tutto questo parlare di Smart City?
Non per essere troppo sarcastico, la prima cosa che mi viene in mente è: ma chi è smart e cosa? C’è da considerare che la smart city non si crea da sola. C’è una motivazione e una visione dietro. Quando ero uno studente universitario, Bologna era una smart city: una città che integrava i progressi tecnologici in un modo di governare la città che aveva una visione politica, in quel caso di sinistra, cercando di collegare una politica progressista con i vantaggi della tecnologia. Una generazione più tardi la discussione si è spostata su un altro piano, da un lato pensiamo a una città intelligente in quanto a portata di mano, modellata sul web, così che sembra essere accessibile a tutti a costo basso o inesistente. In questo senso viviamo in un ambiente molto intelligente. Allo stesso tempo la conversazione si è spostata dalla visione utopica di completa democratizzazione e egualitarismo, a una visione distopica dei nuovi cittadini, costantemente connessi sui device mobili, controllati da google come dalla NASA. In questo senso quello stiamo facendo è creare una intelligenza che è in realtà abbastanza sciocca. Ci facciamo catturare dalla nostra stessa evanescenza. Invece di stare nei bar o nelle piazze della città, viviamo nel virtuale. Dobbiamo capire come usare la nostra intelligenza quando lavoriamo alla città intelligente.
Come dovrebbe essere coinvolta la PA locale?
L’amministrazione è già coinvolta, da sempre. Il governo britannico e quello canadese, ad esempio, hanno fatto sì che la suburbanizzazione prendesse piede, anche se dicono che è stata opera dei mercati. Sono i governi che hanno reso possibile determinati tipi di mutui agli acquirenti di case o che hanno costruito in periferia i condominii per i superstiti della seconda guerra mondiale. Sono anche coinvolti in una sorta di competizione orizzontale: è quello che Molotch negli Usa chiama la growth machine (macchina della crescita): le amministrazioni cittadine competono per lo sviluppo residenziale e per aumentare così il numero dei residenti che pagano le tasse. E ‘interessante che molte innovazioni sociali arrivino oggi proprio dalle comunità “più suburbane” attorno alle grandi città, dove le persone ripensano cosa significa vivere in un ambiente urbano e iniziano a sviluppare una coscienza elettorale più sensibile ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Per intenderci, le banlieue francesi sono u’ invenzione dello stato francese che ora però deve affrontare le conseguenze di un simile modello. Le amministrazioni locali sono decisamente in prima linea, inevitabilmente in interazione con i cambiamenti sociali che stanno rivoluzionando rapidamente i contesti di periferia, dovunque.
(questa e altre interviste le trovi su: http://saperi.forumpa.it/)