Arrivò come una sana folata rigeneratrice nelle aule stantie di Economia e Commercio, in Largo Fraccacreta a Bari, per insegnare Diritto Pubblico. E sin dal primo istante il sorriso e l’affabilità di Enrico Dalfino conquistarono l’attenzione e la stima della nutritissima schiera di discenti. Bisognava prenotare i posti in quella spoglia aula magna trasformata nella più accessibile delle “agorà”, in cui nemmeno la più noiosa delle mosche osava disturbare la lezione di quel Pericle contemporaneo, al centro di un improvvisato ma più “democratico” anfiteatro.
L’oratoria ammaliante, l’entusiasmo coinvolgente, la passione “Costituzionale” e una sorta di naturale carica innovativa, aprirono porte e finestre di una Facoltà austera e decadente. Per allargare visione e prospettive verso un mare e un mondo che, all’indomani del ’68, cominciavano a muoversi lungo dorsali in parte ancora sconosciute ed a ritmi decisamente dettati dalla vivacità di un’affascinante modernità.
Come non rimanere conquistati dalla sua venerazione per la Carta Costituzionale, dalle analisi sul lavoro dei “Padri Costituenti”, dal suo “senso dell’Istituzione”, che con gentile tenacia si compiaceva di inculcarci, stimolando rispetto e impegno civico comuni e personali. Qualche anno prima erano state varate le Regioni e da poco anche l’assetto giurisdizionale si andava adeguando alla nuova architettura amministrativa, con l’istituzione dei TAR (Tribunali Amministrativi Regionali). Per cui, durate i seminari di approfondimento con i primi Presidenti degli stessi TAR, era già evidente quanto stretto gli stesse il corso in Istituzioni di Diritto Pubblico, che ben presto sarà trampolino per la docenza prima in Diritto Costituzionale e poi in Diritto Amministrativo presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari.
L’arrivo della “Vlora” e del suo carico di oltre quindicimila “disperati” mise a dura prova il suo essere Sindaco di Bari e il suo impegno di cristiano in politica. In sgomenta solitudine, dovette responsabilmente farsi carico di decisioni pesanti. Lo fece con piglio da leader, facendo ricorso alla forza biblica “dell’accogliere e conoscere”. Perché avvertì come Bari, la Puglia e l’Italia fossero “l’ultima speranza” per quelle che in realtà furono circa ventimila persone: avanscoperta drammatica di un disagio diffuso, che montava inesorabilmente al di là dell’Adriatico.
Sono convinto che l’accoglienza e la conoscenza come metro e strumento di organizzazione e reazione non solo pratica, ma anche politica, spensero in quel momento una miccia pericolosamente accesa da occulti artificieri internazionali. Non si spiega altrimenti la reazione scomposta di un Capo di Stato come Francesco Cossiga, che forse tradiva più la sorpresa dello stratega-sentinella di equilibri occidentali, che la funzione “maieutica” di Presidente della Repubblica di un Paese-approdo di tanta siffatta disperazione.
La “sberla istituzionale” presa inaspettatamente dal “servitore dello Stato” Enrico Dalfino, che aveva speso una vita ad inculcare il “culto dell’Istituzione” ai suoi discepoli, e che si sentì richiedere “delle scuse per il suo comportamento umanitario”, fu di una forza devastante inusitata. I cui effetti inclementi, purtroppo, saranno evidenti qualche anno dopo.
Difficile pensare alla commistione del Presidente della Repubblica in contese di correnti dell’allora DC. Così come risulta inconsistente l’apparente diatriba sulla proprietà e l’utilizzo dello Stadio della Vittoria, soprattutto in funzione di una situazione di emergenza dalla lampante, sconvolgente e drammatica evidenza. Fu lo stesso presidente Cossiga, infatti, a classificarlo: “Un fatto di Stato”.
Resta il rammarico della meteora Dalfino trasformata in una cometa, in un mattino d’agosto del 1991. E il proposito di continuare a ricordarlo e raccontarlo, per “rinnovarne con orgoglio voce e pensiero”. Un impegno solenne e indelebile, dato il ritorno al Padre il giorno del mio compleanno.
di Antonio V. Gelormini