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Le spie clignottano, i livelli si abbassano e le scorte sfumano. Le trivelle in affanno si surriscaldano, la febbre sale e le borse europee bruciano ingenti capitali, come se fossero fascine in fiamme nella notte di S. Giuseppe.
Preghiere laiche e sguardi anelanti sono tutti rivolti verso La Mecca, verso le terre delle “Mille e una notte”. O meglio, ad Abu Dhabi, dove fra qualche settimana si riunirà l’Opec, il potente cartello dei produttori di oro nero. E il fremito della speranza è tutto concentrato nella decisione liberatoria di una significativa maggiore apertura dei loro preziosi rubinetti.
La concessione, però, rischia di assumere gli improbabili caratteri di un miracolo. Sono troppi, all’interno dell’organizzazione, a propendere per mantenere immutato l’adeguamento che i mercati hanno fissato al prezzo del greggio. In una fase di indebolimento della moneta americana è ovvio che le quotazioni salgano. In pratica, non è il petrolio che costa di più, ma è il dollaro a valere di meno.
Non c’è genio o lampada di Aladino che possa proporre, al momento, soluzioni alternative. Solo un incremento dell’offerta potrebbe provare a calmare gli animi e contenere la corsa verso il centone americano, riportando l’ago del segnale sui 75-80 dollari al barile.
Certamente la domanda è in crescita esponenziale, Cina ed India sono spugne planetari. Ma a fare da enzima e catalizzatore al processo impennante del listino-barili, in fondo, è soprattutto la stanchezza, tradotta in debolezza, dello sguardo spento di Benjamin Franklin.
di Antonio V. Gelormini