Gianni Agnelli lo aveva segretamente sognato a lungo. Con lucidità e coraggio imprenditoriale aveva pervicacemente mantenuto la Fiat su una strada che poteva portarla lontano. Sapeva che impegno, serietà e costanza nella ricerca, visione globale, rispetto e coinvolgimento delle maestranze, nonché attenzione alle ripercussioni sul sociale, alla lunga avrebbero pagato. Alleanze, produzioni delocalizzate, diversificazione degli investimenti e dignitosi rapporti internazionali con i grandi dell’automobile, prima o poi avrebbero determinato la “svolta”.
Due i grandi maestri a cui si è sempre rifatto: Henry Ford e Adriano Olivetti. I simboli di due filosofie aziendali, che Agnelli voleva caratterizzassero a pieno la sua Fiat. L’armonizzazione dello sviluppo industriale, di matrice americana, con il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, di impronta piemontese. Una sintesi che riuscisse a conciliare l’affermazione dei diritti umani con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica. Parte da qui il successo odierno della Fiat, che da Cenerentola delle quattro ruote, diventa addirittura Principe ambito di un impero automobilistico, in cerca di riscatto da una crisi mondiale senza precedenti.
Questa, perciò, l’Avvocato non avrebbe proprio voluta perdersela. La Fiat che diventa modello, dopo aver inseguito da sempre il modello americano. La Fiat che salva e scala la Chrysler, per poi accingersi a fondersi anche con Opel della General Motors, è una rivoluzione che valeva la pena di essere vissuta. Una rivoluzione che fa grande la piccola società torinese, ma non fa di Torino la Detroit europea. Piuttosto onora l’attenzione di casa Ford, che volle testimoniare il riconoscimento alle intuizioni e all’impegno del capoluogo piemontese, con uno dei modelli più apprezzati nella pregiata gamma ammiraglia: la Gran Torino.
Facile oggi essere tutti orgogliosi e fieri dell’affermazione internazionale dell’azienda più rappresentativa del nostro Paese. Ma tutti ricordiamo quali espressioni hanno accompagnato gli irrigidimenti governativi, solo di qualche anno fa, sotto la spinta intransigente di una forza politica come la Lega nord. Per non parlare dei preconcetti sindacali di casa nostra, che tuttora non esprimono una posizione chiara, nel considerare o no la Fiat un asset strategico per il Paese. Per il quale si giustificano misure adeguate di intervento a sostegno, soprattutto in periodi di crisi.
La lezione proveniente d’oltreoceano mette in evidenza tre spunti di riflessione. Primo, a credere e scommettere sulla Fiat è il presidente Obama e il governo americano. Impressionati dal lavoro di Sergio Marchionne nella rinascita del marchio italiano. Magari con un occhio e un pensiero anche a quel capolavoro dell’italo-canadese messo a segno, a suo tempo, con General Motors. Il put pagato da GM salvò la Fiat, ora è tempo che la Fiat salvi GM e l’intera costellazione in crisi dell’auto americana. Ancora una volta: Nemo propheta in patria.
Secondo, è il know-how accumulato dall’azienda torinese, sin dai tempi di Vittorio Valletta, di Gianni e Umberto Agnelli ad essere messo in valore nell’operazione Fiat/Chrysler/Opel-GM. La casa torinese mette a frutto gli sforzi di tanti anni in una ricerca a lungo snobbata da altri. Quella per un’automobile poco inquinante, poco ingombrante e poco costosa. L’auto “sobria” a cui Obama vincola la disponibilità delle risorse federali, per il salvataggio del settore tra i più strategici dell’industria americana.
Terzo, una vera e propria rivoluzione nella piattaforma negoziale con le forze sindacali. L’accordo impossibile, che limita gli scioperi, riduce il costo del lavoro e porta gli operai nella governance di Chrysler. A questa sfida le banche avevano ancorato le speranze di evitare il ridimensionamento significativo del credito acquisito col sistema dell’auto statunitense. Su questo fronte il sindacato italiano, lontano anni luce da una visione moderna e flessibile del negoziato, è bene che rifletta a fondo e alquanto rapidamente. Opel è all’orizzonte. La storia non passa due volte.
di Antonio V. Gelormini