Non potrebbero essere più divergenti i binari di India ed Italia, lungo i quali viaggiano non solo treni, più o meno moderni, ma anche metodi e programmi di risanamento e rilancio dei rispettivi sistemi ferroviari.
Una visione diametralmente opposta. Tanto innovativa, ambiziosa e gratificante quella orientale, quanto meschina, rinunciataria e improduttiva quella nostrana. In genere, in situazioni difficili riusciamo a dare il meglio. Non in questo caso. Dove prevale l’atteggiamento d’attesa apatica (tipico delle sale tristi e squallide delle stazioni italiane) e il ricorso alla soluzione più immediata che non risolve il problema, ma lo cestina.
Da tempo, dappertutto nel mondo, le ferrovie sono un ottimo affare. Soprattutto dopo l’impennata dei prezzi dei carburanti e l’intensificarsi di politiche ambientali sostenibili a lunga prospettiva. Nel segmento mobilità su rotaia, in particolare, è il trasporto merci a far registrare gli indici di redditività più alti. E non è per caso che investitori “eagle”, dalla vista acuta come Warren Buffet, hanno trasferito sui binari gran parte delle loro attenzioni concrete, quantificabili in milioni di dollari.
Ma se questo è vero altrove, per le Ferrovie Italiane è come acqua che scorre sul marmo. La loro crisi è atavica. La sindrome da sportello biglietteria è ormai patrimonio genetico dell’intera struttura. Scarsa attenzione al servizio, parco clienti trasportato e gestito –in taluni casi- a livello di mandrie in transumanza, politica commerciale da sclerosi, tariffe inadeguate: buone a fissare lo sguardo sull’Europa solo quando si preparano i listini, mai quando si valutano le prestazioni. E se una tratta non va, perché continuare a perdere soldi? Meglio reciderla, anziché renderla più profittevole.
Tutt’altra aria sulle sponde del Gange. A guardare da lontano si direbbe un’enorme e sonnacchiosa sala d’aspetto a cielo aperto. Avvicinandosi con lo zoom della ripresa, invece, ci si accorge di quanta operosità, silenziosa e rivoluzionaria, si nasconde dietro sorrisi e gentilezze tanto disarmanti quanto accattivanti.
Le Indian Railways sono un pachiderma da 1,4 milioni di dipendenti e oltre 63mila chilometri di strada ferrata. Il loro risanamento, che oggi consente un esubero di cassa, prima della distribuzione dei dividendi, di 250 miliardi di rupie (3,7 miliardi di euro), si è materializzato lungo i binari di una formula semplice ed efficace: “Treni più veloci, più pesanti e più lunghi”.
Dietro il fischio trainante di treni comodi ed essenziali, capaci di coprire i 410 km. da Delhi a Jhansi (nord India) in meno di 5 ore, la ristrutturazione delle ferrovie è passata attraverso un ampliamento dell’offerta e non da dolorosi processi di ridimensionamento. Da queste parti non ci pensano nemmeno a licenziare, alzare le tariffe o tagliare le tratte.
Il Paese va, il Pil cresce e le ferrovie cavalcano la tigre del trasporto merci, in vistosa crescita esponenziale (il 65,2% dei ricavi totali), per contenere i picchi di una politica tariffaria nel segmento passeggeri. Fatti due conti, si sono accorti che era possibile aumentare i convogli più popolari da 16 a 24 carrozze. I costi sono lievitati del 28%, ma i ricavi oltre il 73%. Sono aumentati i controlli e, nel Paese a più elevato tasso di intelligenza informatica, è stato varato un sistema automatico di prenotazione, che riassegna i posti vuoti nei vagoni migliori, ai possessori di biglietti di classe immediatamente inferiore. Liberando a cascata disponibilità per le fasce a richiesta più alta. Una sorta di “Yield management” per poveri, che produce profitti e consente investimenti insperati.
Intanto in Italia le cimici saltano, la Tav arranca, il Mezzogiorno inesorabilmente si allontana. In compenso, i capitreno sono dotati di divise nuove e di una tecnologia all’avanguardia.
di Antonio V. Gelormini