Nel novero dei compaesani della località natia, Marittima nel Basso Salento, compiendo un salto a ritroso di cinquanta – sessant’anni, mi viene in mente la figura di un uomo comunissimo, fra i più semplici e poveri.
Del tutto ordinario e umile, anche il suo mestiere di contadino, volto alla coltivazione diretta delle risicate zolle di terreno proprie e, soprattutto, alla ricerca, quando ce n’era, di lavoro a giornata nelle campagne di terzi, a fronte di una paga generalmente striminzita.
Il suo nome era Stinu ‘u Pativitu, dove ‘u sta per la preposizione semplice di, in senso di appartenenza o discendenza; italianizzando, quindi, Agostino di Ippaziovito.
Il predetto concittadino deteneva una sola cosa in misura abbondante, in altre parole, il numero di figli, ben sei, del resto, all’epoca, neppure eccezionale.
Su ogni altro fronte, invece, disponibilità e risorse zero o molto risicate, indigenza assoluta, prossima alla miseria, appena l’indispensabile perché la famiglia potesse sfamarsi.
A onor del vero, esisteva un piccolo “lusso” di cui Stinu non riusciva a fare a meno: l’acquisto, nella privativa tabacchi, di un mezzo sigaro toscano che, però, egli gustava, fumava e consumava col contagocce, dovendogli durare in media una quindicina di giorni.
In testa, un vecchio e liso cappello di colore irriconoscibile, perennemente lo stesso; inoltre, nel periodo invernale e di media stagione, una sorta di mantello buttato sulla camicia, indumento che, a sua volta, vantava molte più primavere di Stinu, avendo originariamente coperto le spalle del di lui padre, Pativitu.
Con tale divisa addosso, Stinu soleva, sistematicamente ogni domenica mattina, portarsi e fermarsi in piazza, nelle immediate adiacenze della bottega del macellaio (in dialetto, ucceri, da cui la denominazione dell’esercizio, ucceria).
Quella presenza, lì fissa, sollecitava, ovviamente, la curiosità, non è dato di sapere quanto e se ingenua e disinteressata, ora di uno e ora dell’altro compaesano.
Alle sequenze di “perché?”, “come mai?”, la risposta di Stinu era immancabilmente la stessa: “Vedete, dal momento che non ho i mezzi per comprarmi neppure n’onza di carne, mi trattengo qui e, così, mi sazio, o m’illudo di saziarmi, semplicemente guardandola e percependone l’odore”.
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Orbene, non so come si sia verificato, ma stamani (alcuni giorni fa – ndr) mi sono sentito, almeno idealmente, nei panni e nel ruolo di Stinu ‘u Pativitu.
Nella cittadina termale dove sto passando i fanghi, dischiude le sue vetrine, e presenta ampi banchi d’esposizione all’esterno, un negozio di “specialità alimentari”.
Fra i prodotti offerti e in bella mostra, i due seguenti:
– pomodori secchi di prima qualità, € 12 a chilogrammo;
– funghi porcini secchi selezionati, € 13,50 a sacchetto da 100 grammi.
Al cospetto di simili, stupefacenti quotazioni a buon mercato, è bastata una frazione di secondo perché mi s’ingenerasse dentro un volo d’ingegno e, con la fantasia, ordinassi e consumassi subito un abbondante antipasto a base dei suddetti pomodori e funghi. Col risultato, di sentirmi un gaudente privilegiato, senza dover sbottonare il portamonete.
Un effetto, gradito a tal punto, che, trascorsa una breve pausa, non ho esitato ad effettuare, col pensiero, un’ulteriore operazione d’acquisto e consumazione, riferita, stavolta, a un gustoso e dolcissimo dessert fatto esclusivamente di “pralineria padovana”, ammiccante in un’altra vetrina e “regalata” appena a 13, 25 e 49 euro a confezione, rispettivamente, da 250, 500 e 1000 grammi.
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Percorrendo il viale, ho incrociato un signore con, in mano, il quotidiano fondato da Montanelli “Il Giornale”, titolante, in prima pagina, “Quei bravi ragazzi”, con chiaro richiamo ai giovani manifestanti, con episodi di violenza, in alcune città. E’, questa, una faccia, per fortuna non prevalente, della società globale e dei tempi che viviamo.
Quasi nel medesimo istante, piegando lo sguardo verso i giardinetti a fianco della strada, ho notato, sistemata su una panchina, una coppia sulla quarantina, lui seduto e appoggiato alla spalliera, la donna, invece, sdraiata e con il capo poggiato sulle gambe del partner.
Rapidamente, ho deviato e mi sono avvicinato, rivolgendo, ai due, i miei complimenti per l’immagine, in certo qual modo, desueta per la metà di novembre e per di più non al mare o su un prato di montagna.
Risposta dell’uomo, sorridendo: “Però è gradevole stare così, anche adesso e qui”. Ho appreso che provengono da Chioggia, la carinissima piccola Venezia, contraddistinta dalla concentrazione di una sparuta gamma di cognomi, fra cui Vianello, Boscolo e Tiozzi e, altresì, dalla presenza di un tipico ristorante “El Gato” , che anni addietro ho sperimentato in più occasioni e dove si può mangiare dell’ottimo pesce.
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Dalla pasticceria più nota di Montegrotto, ho visto uscire una suora vestita di bianco, con, in mano, una capiente guantiera incartata, attesa in macchina, a pochi metri, da una consorella. Senza ritegno, le ho chiesto: “Suora, avete forse da festeggiare qualche ricorrenza con i bambini del catechismo, oppure attendete la visita di un Monsignore?”. Per replica, mi è stato rivolto un semplice, delicato sorriso che, tuttavia, si è rivelato maggiormente esauriente di una lunga risposta a parole.
Proseguendo il cammino del ritorno verso l’albergo, mi sono imbattuto in due signore di ieri, distinte ed eleganti: la prima con un barboncino nero al guinzaglio, l’altra, a mani libere, con un volto bellissimo che mi ha rimembrato affascinanti figure del cinema di un tempo.
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E’, oggettivamente, lontano da queste plaghe, il caro Salento, ben 1000 chilometri ho ricordato ieri e, però, è stata sufficiente una piccola coincidenza per non farmi sentire completamente foresto.
Sto leggendo il saggio di un noto giornalista e scrittore, Raffaele Nigro, lucano di nascita e pugliese d’elezione, dal titolo “Ascoltate, signore e signori“, regalatomi dal mio amico editore Lorenzo. Un testo gradevole, in cui si parla, fra l’altro, delle figure di particolari personaggi, un tempo diffusamente presenti ma adesso praticamente scomparse, i cantastorie.
Stranamente, nel pomeriggio di sabato 17, al centro di Abano, in prossimità delle pagodine di vendita di estratti, infusi e creme di lavanda, tutte dipinte di viola, mi è capitato d’imbattermi in una strana figura, ricoperta da un costume stravagante, accanto al suo personale banchetto con la scritta, niente poco di meno che, “Il Cantastorie, canzoni popolari e dialettali, Francesco dal Bosco”.
In ultima analisi, una quanto mai puntuale continuità fra le figure mitiche del saggio del lucano Nigro e un artista di strada del medesimo, antico genere, in carne ed ossa e in attività nel comprensorio delle Terme.
di Rocco Boccadamo