Per combattere la fake news scientifiche che inquinano il dibattito pubblico la rivista Nature ha per la prima volta pubblicato una definizione di “riviste predatorie”. La definizione è stata redatta da un panel di 35 ricercatori provenienti da 10 paesi diversi che si è incontrato a Ottawa, in Canada, lo scorso aprile e di cui ha fatto parte anche Mauro Sylos Labini, professore dell’Università di Pisa.
Secondo la definizione pubblicata su Nature, le “riviste predatorie” sono quelle che antepongono i loro interessi economici alla diffusione della ricerca scientifica e, più in concreto, riportano informazione false o ingannevoli, non rispettano le migliori pratiche redazionali ed editoriali, non sono trasparenti e si rivolgono (di solito per email) ai ricercatori in modo aggressivo e indiscriminato per spingerli ad inviare i propri articoli. Secondo le stime degli studiosi, si calcola che ogni anno circa 400 mila articoli appaiono su riviste che millantano standard accademici, ma che invece pubblicano qualsiasi cosa a pagamento. Di conseguenza è sempre più complicato capire se i risultati di una ricerca trovata on-line sono stati pubblicati seguendo le regole della comunità scientifica.
“Le riviste predatorie ingannano i colleghi inesperti, inquinano la valutazione della ricerca e diffondono informazioni potenzialmente false spacciandole per scientifiche – ha dichiarato Mauro Sylos Labini, economista del dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo pisano – Si tratta di pubblicazioni a volte difficili da riconoscere, anche perché le numerose black list disponibili on-line non sono sempre coerenti fra loro, è quindi importante che la comunità accademica trovi un accordo su una definizione e individui le caratteristiche in grado di identificarle”.