Ieri, durante la prima giornata di Slow Fish (l’evento biennale di Slow Food dedicato ai mari e alla pesca a Genova fino a domenica 12), sono stati presentati i primi dati raccolti dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, in collaborazione con ISPRA e le 15 ARPA costiere sullo stato complessivo dei mari italiani. L’analisi rientra nelle misure da mettere in atto dopo il recepimento della Direttiva quadro 2008/56/CE sulla strategia per l’ambiente marino, che si basa su un approccio integrato e intende diventare il pilastro ambientale della futura politica marittima dell’Unione europea. «Si tratta di un vero e proprio punto zero» commenta Irene Di Girolamo, referente ambiente marino dell’ufficio del sottosegretario di Stato all’Ambiente on. Salvatore Micillo. «I dati sono il risultato dell’analisi condotta dal 2015 al 2017 e costituiscono la fotografia dello stato attuale del nostro mare. Al termine del secondo ciclo di analisi, nel 2021, potremo fare un confronto preciso e capire se le prime misure messe in atto hanno dato i loro frutti e se la strada intrapresa è quella giusta». Come previsto dalla direttiva, infatti, ogni Paese deve ora stabilire un programma di azioni concrete per raggiungere gli obiettivi europei, e l’Italia ha iniziato proprio dalle azioni volte a sensibilizzare il pubblico sul tema dei rifiuti.
I principali risultati della ricerca: le specie aliene e i rifiuti
Specie aliene
Al 2018 sono state calcolate 263 specie non indigene nelle acque italiane, di cui il 68% ha stabilito popolazioni stabili lungo le nostre coste. «Questo dato ci dice che la bioinvasione nel Mediterraneo è in costante aumento e, per quanto riguarda le specie provenienti dal Mar Rosso, il cambiamento climatico ha avuto un effetto determinante, sia attraverso la modifica delle correnti, che hanno consentito l’arrivo di queste specie dai mari orientali, sia rendendo l’ambiente più favorevole a specie tropicali» aggiunge Franco Andaloro, esponente del Comitato scientifico di Slow Fish. «Quindi se da un lato si riducono le specie introdotte volontariamente dall’uomo con l’acquacoltura, dall’altro aumenta la migrazione di quelle che arrivano attraverso il canale di Suez. La conservazione dell’ambiente è essenziale in quanto si è evidenziato che le specie aliene sono meno presenti in ambienti sani e protetti». Un tema, questo, analizzato anche all’interno del programma di Slow Fish, dove cuochi e pescatori si confrontano e raccontano come stanno cercando di trasformare un problema in una risorsa. «È infatti importante un loro utilizzo alimentare per limitarne la diffusione», conclude Andaloro.
Rifiuti
Grazie al monitoraggio effettuato e presentato oggi a Genova, è possibile avere una prima base di riferimento sulla quantità dei rifiuti marini. Tra le aree, monitorate due volte l’anno, troviamo le spiagge, le stazioni di profondità, la superficie marina e gli esemplari di tartarughe spiaggiate e successivamente analizzate. «Ne emerge un quadro significativo» commenta Silvio Greco, presidente del Comitato scientifico di Slow Fish. «Con una media di 777 rifiuti spiaggiati ogni 100 metri lineari. La plastica – incluse bottiglie, sacchetti, cassette in polistirolo, lenze da pesca in nylon – emerge come il materiale più abbondante con una percentuale dell’80%». Tra i 10 e gli 800 metri di profondità la media degli oggetti per km quadrato passa da 66 e 99: anche qui la plastica è il materiale predominante con il 77%, rappresentata da buste, involucri per alimenti e attrezzi da pesca.
«Significativa soprattutto la densità dei microrifiuti plastici inferiori ai 5 mm ritrovati sulla superficie marina, che è di 179.023 particelle per km quadrato» continua Greco. «Questo ci fa riflettere soprattutto sull’incuria che abbiamo avuto nei confronti del mare in passato, perché queste particelle sono il risultato della frammentazione di tutto ciò che abbiamo gettato indiscriminatamente pensando che il mare fosse la nostra discarica naturale». Basti pensare infatti che i tempi di degradazione in mare per le bottiglie di plastica sono stimati in 500-1000 anni, mentre passiamo a 20-30 per i bastoncini cotonati e a 10-20 anni per le buste di plastica.
Rifiuti, lo sappiamo, che hanno conseguenze sullo stato della biodiversità marina, pesci e tartarughe in primis. Dall’analisi di 150 esemplari di tartarughe Caretta caretta spiaggiate è emerso che il 68% presentava plastica ingerita.
«Diversamente da quanto atteso, l’80% dei rifiuti plastici spiaggiati censiti nelle spiagge risulta derivare dai fiumi, mentre il 20% è scaricato direttamente in mare. Dato, questo, che dovrebbe farci riflettere in merito al fatto che la cura dei mari comincia dai nostri comportamenti a terra» continua Greco. «Insomma, da questi dati emerge un quadro sicuramente da tenere sotto controllo: alcune aree risultano più contaminate di altre, ma si tratta di un punto di partenza fondamentale per muovere i prossimi passi» conclude Irene Di Girolamo.
La Strategia Marina
Il 17 giugno 2008 il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno emanato la Direttiva quadro 2008/56/CE sulla strategia per l’ambiente marino, successivamente recepita in Italia con il d.lgs. n. 190 del 13 ottobre 2010. La Direttiva pone come obiettivo agli Stati membri di raggiungere entro il 2020 il buono stato ambientale (GES, “Good Environmental Status”) per le proprie acque marine. Ogni Stato deve quindi mettere in atto, per ogni regione o sottoregione marina, una strategia che consta di una “fase di preparazione” e di un “programma di misure”. La Direttiva quadro stabilisce che gli Stati membri elaborino una strategia marina che si basi su una valutazione iniziale, sulla definizione del buono stato ambientale, sull’individuazione dei traguardi ambientali e sull’istituzione di programmi di monitoraggio. Gli Stati devono redigere un programma di misure concrete diretto al raggiungimento dei suddetti obiettivi. Tali misure devono essere elaborate tenendo conto delle conseguenze che avranno sul piano economico e sociale. |