Adesso che formalmente anche l’Unione europea ha ufficializzato la “rilevanza” della produzione energetica derivante dal nucleare, assume contorni imbarazzanti e paradossali la sindrome di Nimby, che da tempo accomuna diversi Paesi del vecchio continente, compresa l’Italia.
Sotto l’effetto delle devastanti e incresciose immagini del disastro di Cernobyl, si optò per una scelta antinucleare, blindandola col sigillo popolare del referendum. Ma già dall’indomani cominciarono ad importare, pagandola anche cara, energia prodotta col nucleare da Paesi vicini. Per noi, in particolare, dalla Francia.
Col senno di poi, più d’uno ha avanzato l’ipotesi che la campagna antinucleare dell’epoca abbia goduto di risorse provenienti proprio da fonti transalpine. Fatto sta che, in concreto, anche noi viviamo la contraddizione quotidiana del “non nel mio giardino”. Anzi, addirittura in Paesi come la Romania siamo fornitori di tecnologia e co-produttori di quel tipo di energia.
Forse i tempi sono più che maturi per razionali riconsiderazioni e per coraggiose scelte conseguenti. Ci piace essere fra i 7 Paesi più industrializzati al mondo, ma vogliamo usare il triciclo mentre gli altri si attrezzano per competere con la Ferrari. Cominciamo a ritenere bene di prima necessità il condizionatore o la seconda e terza auto, contribuendo ad allargare il buco dell’ozono, ad aumentare le emissioni di CO2 e ad infestare balconi e strade delle nostre città, ma rivendichiamo l’essere contro il nucleare come un fattore di identità nazionale.
Ora, poiché un recupero di produzione energetica nucleare non si realizza in poco tempo, sarebbe il caso che decisioni a proposito, per avviare un processo di durata decennale, non venissero ancora rinviate sine die. La nuova generazione di tecnologie nucleari, cosiddette sostenibili, oggi sono a disposizione e nei prossimi dieci anni non potranno che evolvere.
Nel contempo, tutto quello che può essere promosso nell’utilizzo di fonti energetiche alternative, rinnovabili e pulite va potenziato e razionalizzato. Quelle tradizionali di natura fossile sono vicine all’esaurimento e i tempi di ricostituzione naturale delle riserve, non riusciranno a tenere il passo con il risucchio da idrovore di Paesi emergenti come India e Cina.
Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, da oggi si muove sulla prima auto ad idrogeno messagli a disposizione. L’auspicio è che quanto prima lo possano fare anche i romani, i milanesi, i napoletani e i fiorentini. Consapevoli che anche questa soluzione non potrà che assumere la forza della complementarietà. La scelta radicale, alla quale bisognerà dare forma e proposta rapida, chiara e univoca, è quella del ripensamento. Di tempo, soldi e chiacchiere se n’è spesi già abbastanza.
di Antonio V. Gelormini