La notizia dell’imprenditore tech Mike Johns intrappolato in un robotaxi  sembra uscita direttamente da un episodio di fantascienza. Eppure, il curioso episodio avvenuto in un parcheggio di Los Angeles, dove un taxi senza conducente ha iniziato a girare su se stessa, offre spunti di riflessione profondi sull’uso e l’affidabilità delle tecnologie autonome.

La tecnologia senza connessione umana
La situazione, che Johns ha descritto come “surreale” e quasi degna di uno scherzo, evidenzia il paradosso di un progresso tecnologico straordinario che però manca di empatia. L’imprenditore, costretto a rivolgersi al servizio clienti del robotaxi per risolvere il problema, si è chiesto se stesse parlando con un essere umano o un’intelligenza artificiale. La sua esperienza non è isolata: sempre più spesso, ci affidiamo a sistemi automatizzati che, per quanto efficienti, mancano della capacità di offrire rassicurazione o comprensione nei momenti di difficoltà.

Questa mancanza di empatia è stata sottolineata dallo stesso Johns, che ha espresso frustrazione per la totale assenza di contatto da parte dell’azienda successivamente all’incidente. Non una chiamata, non un messaggio: solo un problema risolto a metà e nessun follow-up. Una risposta che fa riflettere su quanto le aziende tecnologiche siano pronte a gestire le inevitabili falle del loro sistema.

La sicurezza e l’affidabilità del futuro autonomo
Episodi come questo non solo sollevano interrogativi sull’effettiva sicurezza dei veicoli autonomi, ma portano anche alla luce un aspetto più sottile e inquietante: cosa accade quando la tecnologia fallisce? Un problema software, come nel caso del robotaxi, può essere corretto, ma la fiducia dell’utente è molto più difficile da riconquistare. Johns, che lavora nel settore tecnologico, ha affermato di apprezzare i progressi della guida autonoma ma ha dichiarato che non utilizzerà più i servizi dell’azienda del robotaxi finché non sarà certo che questi episodi siano definitivamente risolti.

La riflessione che emerge riguarda la necessità di integrare il progresso tecnologico con un sistema di gestione delle crisi che metta l’essere umano al centro. La tecnologia, per quanto avanzata, deve essere progettata per collaborare con le persone, non per lasciare gli utenti intrappolati in situazioni in cui l’assenza di un volto amico amplifica il disagio.

La sfida dell’empatia artificiale
L’aspetto più interessante di questa vicenda è forse la domanda implicita che Johns pone: è possibile programmare empatia in un sistema automatizzato? La risposta non è semplice. Anche se l’intelligenza artificiale può essere addestrata a rispondere con frasi rassicuranti, l’esperienza umana insegna che la connessione emotiva va oltre il linguaggio. In un mondo in cui l’automazione sta diventando sempre più diffusa, trovare il giusto equilibrio tra efficienza tecnologica e interazione umana sarà una delle sfide più importanti per il futuro.

L’esperienza di Mike Johns, quindi, non è solo un aneddoto curioso. È un campanello d’allarme per aziende come questa e per il settore della tecnologia in generale: l’innovazione deve andare di pari passo con la costruzione di relazioni di fiducia. Perché, in fin dei conti, la tecnologia non deve solo portarci a destinazione; deve farci sentire al sicuro lungo il tragitto.