Li chiamavano i patron de gauche. Imprenditori di prim’ordine, che si sentivano investiti di una missione sociale e l’hanno perseguita con entusiasmo, coraggio innovativo e audace scaltrezza. Nobili senza blasone, degni dei grandi di Francia, ma molto più somiglianti ai mitici “Moschettieri”, i famosi guasconi di Alessandro Dumas.
Antoine Riboud, (Danone), Gilbert Trigano (Club Med) e Edmond de Rothschild (Banque Rothschild) sostenevano tutti la necessità per un’azienda di affiancare alla gestione economica una politica sociale. Il loro “Dartagnan”, oggi, sarebbe in Italia e avrebbe le fattezze di Giovanni Bazoli (Banca Intesa-Sanpaolo), convinto sostenitore del medesimo principio e della responsabilità sociale delle aziende leader e dei loro proprietari.
Un solo erede, oltralpe, per un tale vaste program: Franck Riboud alla guida del colosso alimentare Danone. Che pur accrescendo la redditività del gruppo, attraverso il rilancio delle nuove linee di business (prodotti lattiero-caseari freschi, bevande, biscotti e cereali), non ha mai mancato di puntare sullo sviluppo nei mercati emergenti.
La folgorazione arriva quando riflessa nei cristalli della Piramide del Louvre, Frank Riboud nota, abbandonata su una panchina, la pagina di un giornale con una grande foto di Muhammad Yunus, su cui è appiccicata la stagnola col marchio Danone di uno dei suoi yogurt. L’immagine lo accompagnerà per diversi giorni. E quasi spontaneamente si ritroverà in ufficio, di fronte alla foto di suo padre, a riflettere su grafici, piramidi e terzo mondo.
Le frequenti visite al Louvre lo avevano portato a guardare più spesso la piramide dal basso. E il primo passo, verso le fasce più larghe della piramide dei mercati, era stato già fatto alcuni anni fa, con gli analisti economici della Danone, quando decise di aggredire non solo la punta degli abbienti, ma anche la parte più bassa indubbiamente meno ricca, ma decisamente più numerosa. In Africa o in Indonesia fare business con 30 o 40 milioni di persone era l’impegno quotidiano. Riuscire a farlo, magari con margini più contenuti, ma con altri 230 milioni di potenziali clienti era una sfida dal fascino e dagli stimoli più che entusiasmanti.
“Dopotutto”, sosteneva Frank Riboud, “la missione di Danone è quella di diffondere una sana alimentazione al più gran numero di persone”. E dopo l’Indonesia, infatti, è la volta del lancio delle “Danone Ladies” in Sudafrica. Le donne che a Johannesburg vendono porta a porta, non cosmetici dell’Avon, ma gli yogurt a dieci centesimi di euro. E’ stata definita strategia di “accessibilità” (affordability), ora il modello sarà esportato in Bangladesh, per conquistare mercati ancora più poveri, vendendo prodotti a pochi centesimi di euro.
Dopo quella di Bogra, 150 km. a nord di Dacca, sono circa cinquanta le fabbriche di yogurt previste in Bangladesh, con l’approvazione del fondo Danone Communities da parte dell’assemblea generale degli azionisti. Un fondo che investirà in attività sociali e finanzierà la costruzione delle fabbriche. Presieduto da Riboud, con Yunus vice-presidente, conta di garantire ai sottoscrittori un ritorno del 3-4%. Una nuova forma di dividendo sociale, che ha visto fra i primi aderenti lo stesso personale della multinazionale francese.
“Se il modello funziona”, ha pensato Riboud, “ci sono 3 miliardi di persone sul pianeta che vivono con meno di 2 euro al giorno, con cui possiamo fare business”. E per garantire durata a un prodotto venduto a cinque centesimi di euro, in un’area priva della cosiddetta catena del freddo, la sua azienda è riuscita ad elaborare uno yogurt che per tre giorni mantiene inalterato il potere nutrizionale e dopo la scadenza non presenta alcun pericolo di natura batteriologica.
Un tempo si cercava di unire l’utile al dilettevole. Chapeau, a chi oggi unisce l’utile al sociale!
di Antonio V. Gelormini